PISTOIA. Siamo tornati a vederlo, al piccolo teatro Bolognini, Maledetto nei secoli dei secoli l’amore, ieri sera, nonostante ne avessimo potuto ammirare la profondità già al suo debutto ufficioso, quest’estate, sempre al Bolognini.
Primo, perché veder recitare Valentina Sperlì, coautrice con Renata Palminiello dello spettacolo e unica mattatrice sul palco, è un piacere totale: una bellezza antica, uno sguardo stanco e seducente, un collo caro a Modigliani e un’eleganza chimica, che si confondono, costantemente, con la sua poliedricità recitativa. Ma anche perché, proprio l’attrice, incontrata al Manzoni l’altra sera prima dello spettacolo delle Cerbiatte di Virgilio Sieni, ci ha detto che rispetto all’originale già visto, questo Maledetto nei secoli dei secoli l’amore, riveduto e corretto, è un po’ cambiato.
È vero. Infatti è più snello, più asciutto, più contorto, ancor più descrittivo, riflessivo, deduttivo, con ancor più ridotte movenze sceniche e fisiche, anche se la passione e il dolore di Lady Mora, la spregiudicata e cinica chiromante protagonista chiamata a decidere sulla vita o sulla morte del cugino adorato sin dalla più tenera età ora ricoverato in terapia intensiva in ospedale, sono quelli di prima. Giustamente, visto e considerato che rispetto al libercolo scritto da Carlo D’Amicis, ispiratore dell’esperimento teatrale, non si sarebbe potuto deviare con eccessiva imprudenza.
Ma nonostante i nuovi accorgimenti, con un’essenzialità esasperata e che non può che esaltare la vis ironico-drammatica di Valentina Sperlì, con la voce da conduttrice di programmi che vendono sogni, il pubblico non è rimasto folgorato.
“Sulla bravura della protagonista – commentavano la maggior parte dei presenti dopo lo spettacolo – non c’è nulla da dire: è straordinaria. Però il pathos non arriva a destinazione e nell’ora scarsa della rappresentazione non si avverte il dolore che forse si dovrebbe vivere”. Quello che Renata Palminiello e Valentina Sperlì cercano con disinvoltura tra le righe, senza punteggiatura, del testo originario.
Nella casa di Centocelle, quartiere popolare alla periferia sud di Roma, dove il cugino, dopo aver abbandonato la natìa Puglia, vive da molti anni, svolgendo l’attività di professore, LadyMora trova, oltre ad una babelica confusione e un’immonda sporcizia generata soprattutto dalle feci di Argo, il cane del cugino, una moltitudine di indizi – fogliettini abbandonati un po’ ovunque – di quell’amore vissuto e patito da entrambi, ma mai dichiarato da nessuno dei due. Un amore sfiorato, impossibile – chissà per quale motivo, poi -, che entrambi gli amanti si sono trascinati, ognuno a modo loro, lungo tutte le rispettive esistenze e che ora, mentre lui non è più in grado di corrispondere, sfocia nella sua più esplosiva e inutile fragranza.
Proprio lei, Lady Mora, che ha costruito il proprio successo pronosticando passioni e tradimenti, non è riuscita a codificare e decifrare il proprio amore, quello che avrebbe dovuto soccorrerla e illuderla proprio come tutti i suoi clienti.
Un messaggio forte, amletico, lancinante, scagliato da troppo lontano, forse, o con una lancia non debitamente acuminata, visto e considerato che alla fine, tra il pubblico, nessuno, uscendo, versasse sangue. Un groove mal corrisposto intuito anche dalle due coautrici, che da stasera, fino ai primi di novembre, nelle repliche che si succederanno al Bolognini, proveranno a puntualizzare.