PISTOIA. Ritorna, dopo una breve pausa, la rubrica di approfondimento e divulgazione sull’ambientalismo lanciata da Linee Future per creare consapevolezza attorno ad una tematica complessa e irriducibile ai semplici slogan o tweet con cui in tanti, dalla politica renzusconiana delle larghe intese di sempre fino ai mass media, istituzioni e settori economici, intenderebbero ingabbiarla con eccessiva approssimazione. A questo giro abbiamo sentito Andrea Fusari, professore di storia e filosofia di generazioni e generazioni di studenti del Forteguerri e primo assessore dei Verdi in una giunta comunale di Pistoia, precisamente negli Novanta. Andrea Fusari, tutt’ora impegnato nei Verdi locali ci scrive:
La domanda è di quelle che non possono essere eluse. E l’unica soluzione è fare i conti con la realtà. Prendiamo a prestito il vecchio Spinoza: non lugere, non ridere, neque detestari, sed intelligere. Se i Verdi in Italia prendono lo zero virgola una ragione ci sarà e bisogna cercare, appunto, di comprenderla invece di prendersela, more solito, col destino cinico e baro. Prima di tutto, dunque, un po’ di sana autocritica. I gruppi dirigenti Verdi succedutisi nel tempo si sono sempre mostrati irrimediabilmente rissosi, terribilmente preoccupati del proprio particulare (poltrona o strapuntino che fosse) e pochissimo propensi ad aprirsi a contaminazioni inclusive con gruppi e movimenti che potessero metterne in discussione il ruolo. Il progressivo arroccamento ha determinato conseguente distacco dalla gente e crollo elettorale. Di qui lo spettro della sparizione, a cui si è cercato risposta appiattendosi su coalizioni elettorali che – al di là delle migliori intenzioni dei protagonisti – sono state vissute come radunate di nostalgici incapaci di recidere una volta per tutte il cordone ombelicale con esperienze fallimentari del Novecento. Risalire la china non sarà facile, anche se sarebbe indispensabile per il futuro dei nostri figli. Può forse aiutare la constatazione che non ha sortito risultati migliori il tentativo più o meno in buona fede, più o meno disinteressato dei molti transfughi dai Verdi che, nel nome di un entrismo un po’ frusto, hanno cercato di convertire all’ecologismo altre esperienze politiche ambientalmente meno avvertite, ma sicuramente più ricche di voti. (Do you remember gli Ecodem, per non andare tanto lontano?). Si è cercato di far credere che i temi ambientali erano ormai diventati patrimonio diffuso e quindi non c’era più bisogno dei Verdi. I fatti dicono che non è vero: tutti si riempiono la bocca di ecologia, ma razzolano in tutt’altro modo. Dov’erano i vessilliferi dell’ambientalismo diffuso mentre amministratori indifferentemente di destra e di sinistra distruggevano i propri territori favorendo la cementificazione selvaggia per fare il pieno di oneri di urbanizzazione (fare un bagno a S. Vincenzo per credere)?
E i governanti sedicenti ecologisti della Puglia dov’erano mentre l’Ilva di Taranto mieteva (e purtroppo continua a mietere) vittime fra la popolazione? Dov’erano e dove sono i tutori dell’ambiente annidati nei partiti e sindacati maggiormente rappresentativi di fronte alla questione Tav in val di Susa? Con annesso interrogativo tristemente esteso al corpo elettorale che ciclicamente torna a premiare i Chiamparino, i Fassino (ma gliel’avranno finalmente procurata la sua benedetta banca?). Il consenso elettorale è la conferma che la confusione è grande sotto il cielo, ma la situazione è tutt’altro che eccellente. Non importa guardare lontano. Anche qui a casa nostra quali sensibilità ambientaliste distinsero le altre forze politiche di fronte allo scempio del nuovo ospedale al Campo di volo se il via libera in Consiglio comunale venne dato con il solo voto contrario dei Verdi? E adesso chi nella maggioranza fa sentire la sua voce contro il devastante progetto delle casse di espansione ai Laghi primavera o, proprio in questi giorni, di fronte all’indiscriminato taglio di centotrenta alberi in piazza della Resistenza? Ma non tutto è miseria in questa poco sacra rappresentazione; il riverbero di nobiltà può essere affidato all’eterno e mai superato contrasto, per dirlo con termini antichi, fra utopia e riforma, o – che è lo stesso – fra intransigenti e realisti, che si sono fronteggiati anche nei più forti partiti Verdi dell’Europa centro-settentrionale: è meglio salvaguardare la coerenza e il rigore programmatici, a costo di condannarsi alla marginalità, o cercare risultati concreti nelle politiche di governo, a costo di inevitabili compromessi con i partners politici e l’ineluttabile conseguenza di sporcarsi le mani? Da ragazzi abbiamo tutti letto Sartre, ma la risposta la stiamo ancora cercando.
Resta il fatto che superare questa apparente aporia è la difficile quadratura del cerchio che ancora oggi abbiamo di fronte. Per farlo nessuno ha ricette pronte, ma alcuni temi sicuramente dovranno essere centrali nella riflessione. Prima di tutto, la consapevolezza che il pensiero ecologico è di per sé controcorrente e intrinsecamente passibile di restare “in minoranza”. Gli esseri umani sono, generalmente, più interessati a sapere che cosa mangeranno domani, che non se moriranno di gotta fra quarant’anni. Viceversa, l’ecologia, che per definizione ha a cuore l’integrità della casa, non può compiacere ogni singolo capriccio, magari distruttivo, degli abitanti di turno. Per parafrasare una formula famosa, preoccupandosi delle generazioni future, ha poco appeal presso gli elettori dell’anno in corso. Per di più dice cose sgradevoli agli uomini del ventunesimo secolo, proni al miraggio della chirurgia e della farmacologia che promettono un indefinito allungamento della vita, quando l’uomo è una bestia fatta per vivere in media un’ottantina di anni e poi togliere il disturbo, lasciando il posto alle generazioni che verranno. Magari allargando questa prospettiva alle molte aree del pianeta in cui la speranza di vita è ancora di poco superiore ai trent’anni come duecento o trecento anni fa. Non è corta la vita – lo sappiamo da oltre duemila anni – siamo noi che la sprechiamo confondendo il vivere con la banalità di una indefinita sopravvivenza. Ai parametri della crescita quantitativa, l’Occidente è chiamato a sostituire il criterio della qualità del vivere individuale e collettivo. Si aprirebbe qui la questione della tecnica (che cos’altro è ormai la scienza nel panorama odierno?) e del rapporto fra natura e cultura. Di fronte agli inquietanti scenari della biotecnologia e dell’ingegneria genetica, degli Ogm e della chimica nell’agroalimentare, senza nessuna concessione ai fondamentalismi e nel pieno rispetto dei diritti civili e della libertà dei singoli, bisognerà comunque affermare con fermezza che non tutto ciò che è tecnicamente possibile è eticamente ammissibile. L’uomo – diceva Freud – ha voluto farsi Dio, ma non pare felice. Il pensiero ecologico a ben vedere celebra il tramonto del culto della modernità, del paradigma della crescita e dell’ideologia del progresso, idea relativamente recente – ha alle spalle poco più di tre secoli – e di cui l’umanità ha fatto felicemente a meno per qualche millennio, senza che ciò gli abbia impedito di progredire, che è tutt’altra cosa. Si può continuare a farlo a patto di privilegiare le buone politiche, improntate, nel segno di H. Jonas, al senso del limite e al principio responsabilità, verso il bene pubblico e verso le generazioni future. Bisogna riaffermare il primato del settore primario, la terra, gli animali, come base della vita dell’uomo sul pianeta e della sopravvivenza della specie. Bisogna rideterminare il rapporto con l’ambiente naturale in cui viviamo in termini di pianificazione territoriale e di programmazione economica.
Smettere di allocare risorse ingentissime in grandi opere spesso più dannose che inutili ed investire, invece, in un piano nazionale di messa in sicurezza dal rischio idrogeologico. Costruire sul costruito privilegiando una logica di volumi zero per bloccare il consumo di territorio. Il modello produttivo proprio delle nostre società capitalistico-industriali, fondato sulla crescita indefinita della produzione di beni e sull’assunto che l’offerta crei la domanda mostra già la corda – come la crisi in atto dimostra – e soprattutto svela tratti intrinsecamente dissipativi di risorse spesso non rinnovabili, che lo rendono in prospettiva non sostenibile. Il mitico stile di vita americano, dichiarato non negoziabile dai Presidenti Usa di entrambe le parti, sarebbe assolutamente incompatibile in termini di fabbisogno idrico ed energetico con una sua generalizzazione a livello planetario. Rubando un titolo di successo, potremmo dire che il capitalismo ha i secoli contati. È alle porte un epocale cambiamento di paradigmi che implica una sfida altrettanto profonda sul piano politico e culturale. Ecologia e politiche ambientaliste non sono una variabile dipendente dell’andamento economico, un lusso che non ci si può permettere in tempi di crisi. Sono, invece, una risposta alla crisi, come dimostra oggi il mondo della green economy in termini di fatturato e di capacità occupazionali. Sgomenta l’inadeguatezza di chi ancora rincorre l’economia del mattone, propone incentivi ai combustibili fossili e affida il futuro del paese alle trivellazioni petrolifere. Com’è noto, l’età della pietra non finì perché finirono le pietre. Così, l’età del petrolio non finirà con l’esaurirsi dell’ultima libbra di petrolio, ma quando l’estrazione delle ultime riserve risulterà antieconomica. Cioè adesso, o al più domani, come insegnano gli studiosi del picco del petrolio (vedi).
Ma chi glielo dice ai nostri esploratori adriatici? Abbiamo di fronte un compito immane e responsabilità immense, come si dice, da far tremare le vene e i polsi, e forse è ancora poco. Sicuramente enormemente superiori alle nostre forze. E tuttavia resto convinto che la presenza di un movimento verde in politica sia una risposta, attenzione una, non la risposta all’urgenza di raccogliere la sfida. Nel suo piccolo, l’attuale processo di aggregazione fra Federazione dei Verdi e Green Italia può essere un primo passo nella direzione giusta, quella, cioè, della riunificazione dell’ecologismo politico in Italia. Di per sé certo non può bastare, ma è auspicabile possa essere un punto di riferimento alle istanze e alle attese dei tanti che, come emerge dagli stessi interventi di quanti mi hanno preceduto, “dalle ceneri del passato” si aspettano qualcosa di nuovo, magari un “moderno soggetto sociale e culturale” e, perché no, politico, che sappia federare la miriade di movimenti presenti nella società, ricchi di competenze e di esperienze, quei tanti compagni di strada vecchi e nuovi con cui dividere la fatica e rendere più lieve il cammino. Vedi anche: