PISTOIA. Ospitiamo un nostro lettore che ci ha inviato una sua riflessione.
Un sottile equilibrio tiene in sospeso il dispiegarsi di tante vite, una fragile orditura dove i fili si intersecano e mantengono una situazione già fuori dalla sua viva espressione; tanti che sono fuori dalla cittadinanza attiva perchè esclusi sono dentro come invisibili grazie alle famiglie.
Lo stato sociale sono le famiglie, le pensioni, i pochi risparmi, le elemosine vere e simboliche; oggi una persona mediamente sana che apre gli scuri sulla strada si trova una sciarada da risolvere per arrivare ad un piccolo riconoscimento economico.
Alla faccia delle ottimistiche previsioni da sciamani, ci troviamo a rosicchiare le briciole che cadono dai vari tavoli dei potenti, a scambiare per elargizioni democratiche e progressiste delle riforme che probabilmente avvitano di più una situazione in un nodo scorsoio senza uscire dal paradigma del neoliberismo.
Allora o sei dentro vendendoti l’anima per un po’ di sicurezza, in agilità dorsale e linguale, abdicando alla tua dignità di persona in cerca della tua realizzazione umana, o sei fuori come Sisifo nei continui spostamenti del masso economico.
Il mantra delle riforme rischia di diventare ammaliante come il canto delle sirene, rischiando però di annebbiare la vista senza vedere gli scogli; intanto le spese politiche sono ancora intatte senza tagli.
Vitalizi d’oro, privilegi esosi, scollamento dalla quotidiana realtà della gente normale, vedere facce intervistate dalla patina asettica della tv, sembra di vivere in un inganno collettivo.
Come uscire da questa menzogna se non occupando di nuovo gli spazi pubblici, non per comprare ma per discutere, confrontarsi, parlare avendo il coraggio delle proprie idee, senza finalità economiche?
Ritrovarsi ancora in un bar, o in un piccolo centro adibito per vedere in faccia le persone? Come recita il titolo di un libro da poco uscito, “Le panchine ribelli” fare una rivoluzione solo uscendo di casa per incontrare il vicino, per vedere il suo volto non più mediato dallo schermo di un computer.
Come acquistano le oggettive dimensioni il focomelico agitarsi dei nostri tentativi di esserci nell’illusoria pretesa di contare davvero in un dibattito fittizio; basta staccarsi qualche giorno da fb e tornarci per rendersi conto del condizionamento omologante.
Dobbiamo scaldarci al fuoco altrui per cercare di renderci visibili, perdendo la nostra singolarità, a tal punto ci sentiamo irrilevanti, e affamati di riconoscimento, di un like, di una conferma, che annaspiamo nel mare tumultuoso della cultura.
Nessun post può eguagliare un caffè insieme ad un amico, citando Olmi, nessuna scritta intelligente può nutrire come la compagnia in carne ed ossa della vicinanza, eppure com’è difficile perdere quella sensazione di essere speciali, unici, cercando di aggrapparci alle torri d’avorio delle nostre paure.
L’immagine emblematica della solitudine odierna la danno le panchine dove due o tre persone scrutano il loro cellulare senza incontrare lo sguardo degli altri; dissociazione fra il corpo e l’attenzione a qualcuno distante magari per scambiare banalità.
Insomma “vess ne la grassa e cula’ gio’ la merda dal debre’…” come direbbe Franco Loi, l’opacità di oggi ci rende indistinti, ognuno per sé con un ghigno da rè, quasi indifferenti e stanchi alle sorti di un Paese affievolito sulle passioni tristi.
Bene per i mezzi che ci consentano di “esserci” salvo poi non salutare per strada, come cantava il grande poeta, frate servita, D. M. Turoldo. In queste termitai di solitudine che sono diventate le città.
Massimiliano Filippelli