PISTOIA. Lezione di libertà: sulla facciata del palazzo di un Comune non può sventolare la bandiera di una organizzazione ideologica. Non partitica, ma puramente ideologica.
Secondo passaggio: che un Comune, facendo sventolare lo stendardo incriminato, si erga ad educatore dei propri cittadini, avallando assurdi progetti di sensibilizzazione, è quanto di più distante possa esserci da un minimo pensiero liberale, secondo il quale l’autodeterminazione e la creazione di una propria coscienza critica non possono passare da un indottrinamento calato dall’alto come una cappa sulle nostre teste.
Grazie sindaco Tomasi per il suo coraggio: l’uscita del Comune di Pistoia dalla Rete Re.a.dy (un progetto nazionale che si occupa di orientamento sessuale e identità di genere, leggasi propaganda gender), in tempi di politicamente corretto come gli attuali, non è cosa da poco: difatti già in molti starnazzano.
Si legge nella carta di intenti di Re.a.dy che “In Italia, infatti, le persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender non godono ancora di pieni diritti e spesso vivono situazioni di discriminazione nei diversi ambiti della vita familiare”.
“La Rete vuole porsi anche come soggetto attivo per il riconoscimento dei diritti delle persone lgbt nei confronti del Governo centrale, sulla base delle numerose affermazioni contenute nelle risoluzioni e nei trattati dell’Unione Europea”.
La Rete “promuove presso le Pubbliche Amministrazioni un’attenzione permanente all’emersione dei bisogni della popolazione lgbt e opera affinché questi siano presi in considerazione anche nella pianificazione strategica degli Enti”;
“si pone presso i Ministeri competenti quale interlocutore attivo per l’affermazione dei diritti di piena cittadinanza delle persone lgbt e per il superamento delle discriminazioni; organizza una giornata tematica con eventi diffusi sul territorio nazionale (ad es.: 17 maggio giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia)”.
E molti altri paragrafetti dove si specifica che il fine di questa organizzazione non è quella di evitare discriminazioni e violenze contro i gay (sfidiamo chiunque a provare che in Italia imperversi l’odio omofobo), bensì quello di proporre l’educazione gender e la relativa elargizione insensata di diritti a chiunque ne chieda.
Si parte, così, dal presupposto che i concetti di uomo e donna siano obsoleti, che solo i primitivi (come noi) possano ancora parlare di padre e madre.
Ognuno di noi non nasce né uomo né donna, ma decide col tempo cosa diavolo vuol diventare.
E addirittura si trasforma tutto questo, da libera scelta (volete farvi evirare? Cazzi vostri), a materia scolastica, a fonte di cultura, a pensiero dominante, ritenendo sostanzialmente doveroso per i nostri figli maschi provare a vestirsi da femminucce e viceversa.
È evidente che se non esiste più la distinzione tra i due sessi, un figlio potrà avere due padri o due madri, o due padri e una madre, o due madri e un padre.
O un gatto e uno scoiattolo, visto che va di moda anche la vulgata anti-specista.
In Australia, se un bambino mostra incertezze sulla propria identità sessuale, i genitori possono somministrargli quantitativi di farmaci idonei a fargli cambiare sesso.
Il sottosegretario del ministero dell’Educazione dello stato del Nuovo Galles del Sud (Australia), ha confermato che “molti studenti delle scuole australiane stanno intraprendendo questo percorso, e che il più giovane ha quattro anni”.
Vi capiamo: la sinistra non ha più il proletariato da difendere e quindi si attacca alle lamentele di chiunque si definisca “minoranza”.
Nichi Vendola, tipo, che con 100mila euri è andato oltre oceano a comprarsi il figlio. E in effetti fa parte di una minoranza: quella dei ricchi di sinistra col portafogli a destra.
Sulla facciata di Palazzo di Giano deve sventolare una bandiera sola: il tricolore.
[Lorenzo Zuppini]