PISTOIA. La diffidenza continua ad essere enorme. Da entrambe le parti. Che poi, diverse, non sono, perché la maggior parte delle persone che popolano le comunità rom e sinti nei campi di Pistoia, oltre che essere italiane a pieni effetti e meriti, spesso, sono addirittura pistoiesi.
E anche il tentativo di ieri sera, quello organizzato dal parroco di Vicofaro, don Massimo Biancalani, in collaborazione con la Caritas, di aprire un cammino di contaminazione, prima che di speranza, tra loro e noi, è naufragato sul nascere. Sì, perché all’incontro organizzato nel tardo pomeriggio nella chiesa di Vicofaro, oltre che l’organizzatore, che aveva da poco terminato di celebrare messa a pochi intimi, un suo collega della montagna, don Alessandro Carmignani, alcune addette del Comune, un rappresentante di Sel, due suore e una sparuta rappresentanza di rom e sinti, non c’era praticamente nessuno. E visto che le premesse, in considerazione della magra partecipazione, si sono potute saltare a piè pari, la conversazione si è accesa. Immediatamente.
“Siamo qui da una vita – racconta uno dei partecipanti, che preferisce evitare flash e generalità – e le cose, paradossalmente, sono peggiorate. Per tutti, naturalmente. La miseria, da un po’ di tempo, vi fa somigliare un po’ di più a noi, ma mentre prima, parecchi anni fa, la solidarietà vi suggeriva di darci una mano, adesso preferite serrarvi nella vostre case, a doppia mandata, facendo finta che non esistiamo”.
La storia degli zingari va avanti ormai da generazioni; alcuni si sono perfettamente integrati, altri, la maggior parte, ha preferito non staccarsi dal branco e vivere all’insegna della precarietà e degli stenti.
“Non c’è lavoro per voi – aggiunge – figuriamoci per noi. Anche perché, i titolari delle ditte, appena vengono a sapere che il giovane in cerca di impiego è uno zingaro, improvvisamente, il lavoro non c’è più. Raccoglievamo il ferro, fino a qualche tempo fa e vendendolo riuscivamo a sopravvivere. Ora anche per svolgere quell’umilissimo mestiere bisogna essere in regola pagando una montagna di documenti e non lo possiamo più fare. Fino a quando resistiamo, tireremo avanti, poi, andremo a rubare. Neanche i bambini, nelle nostre comunità, nascono più come un tempo: che ne facciamo a fare, di figli, se non sappiamo cosa dar loro da mangiare”?
Già, i furti. Nelle comunità rom e sinti ci sono quelli che confidano nelle proprie capacità criminali e lo fanno con destrezza invidiabile. Gli altri, molti altri delle stesse comunità, hanno una voglia incredibile di inserirsi alla pari dei loro coetanei che hanno avuto la fortuna di nascere in ben altri contesti, dove la legge è rispettata da generazioni, dove non si è mai avuta la necessità di delinquere.
“Venite a trovarci nelle nostre casette, che non sono baracche, che ci siamo costruiti con gli scarti degli altri – afferma un giovane rom –, venite a vedere come teniamo in ordine e pulito i nostri piccoli camping, non vi vergognerete di trascorrere del tempo in nostra compagnia. Abbiamo la nostra dignità, che somiglia la vostra e ci teniamo come voi a tenerla alta. Ma nessuno fa mai un salto per venire a vedere come stiamo: non rubiamo, non rapiamo i bambini e adoriamo le nostre famiglie. Noi siamo quella comunità di extra comunitari che a voi non sono mai piaciuti e non piaceranno mai”.
“Dovreste mandare i vostri bambini a scuola con maggior frequenza e regolarità – incalza con criterio, non solo didattico, Simona Turco, in rappresentanza del Comune, ma solo dopo aver fatto la voce grossa del padrone di casa ed aver minacciato di andarsene –. Forse la vera grande scommessa dell’integrazione passa da loro”.
La verità è che la comunità di nomadi di Pistoia vive ai margini della nostra città dal 1968 e in questi circa quarant’anni si è provveduto, sistematicamente, solo a tappare buchi e placare le ire: provvedimenti decisivi non ne sono mai stati adottati, se non quelli di sanare deficienze madornali e situazioni al limite della decenza. Brusigliano, ad esempio, è ancora lontano dal somigliare ad una comunità che possa essere definita tale, anche se nel giro di un mese le baracche dovrebbero essere spostate ed entro la fine della primavera o dell’estate prossima essere finalmente sistemate.
“Vi ringraziamo degli impegni che confermate di aver preso – aggiunge un altro nomade –, ma parole così confortanti ne abbiamo sentite molte simili, in tutto questo tempo: ci sono delle esigenze non più rimandabili, come i canali di scarico e il riscaldamento. L’inverno è alle porte, il cattivo odore è insostenibile”.
Tiziana Spacagna e don Alessandro Carmignani provano ad aggirare l’ostacolo, riportando la conversazione su piani sensati, paralleli. Parlano di un progetto che non può e non deve essere fatto di incontri, ma di scambi. Poi cala la sera, la riunione si scioglie, con la promessa che ce ne saranno altre e che si intensificheranno gli incontri.
Noi torniamo a casa; loro, nelle baracche.