PISTOIA. Fu facile profezia nel 1999, prevedere che la fusione di Breda con Ansaldo non avrebbe dato frutti positivi: iniziò con cassa integrazione, accordi sfavorevoli per i lavoratori e esternalizzazione di vari servizi.
Ma, allora, fummo i soli ad essere contrari a quello che stava succedendo.
Oggi siamo costretti ad assistere alla vendita di un patrimonio pubblico nazionale, di un’azienda che ha prodotto treni per tutto il mondo.
Ansaldobreda non esiste più, un altro pezzo importante dell’industria nazionale che non è più italiana.
Non è una questione di nome che cambia. Qui cambia il “proprietario” di mezzi e stabilimenti, con l’unica consolazione che “forse” si conserveranno i livelli occupazionali, ma con il serio rischio che in futuro produzione, progettazione e “testa” del gruppo salpi verso il “Sol Levante”, come la logica ci fa pensare.
Non riusciamo a capire bene dove vogliono condurci i nostri governanti visto che per fare un po’ di cassa svendono un’azienda che opera in un settore dove, nonostante la crisi, è previsto sviluppo e crescita. E anche i sindacati confederali sono stati piuttosto timidi nelle loro scelte. Dal 1999 fino ad oggi è stato accettato un modello di “sviluppo” che riduce l’occupazione, toglie i diritti ai lavoratori, favorisce la precarizzazione e riduce la capacità industriale del paese.
In nome della globalizzazione si riduce l’Italia a terra di conquista per le multinazionali, mentre il livello di cultura, di innovazione tecnologica e scientifica, dell’assistenza sanitaria crolla.
In questa operazione riusciamo a vedere solo il vantaggio per il mercato dei privati, favorendo sempre e comunque il profitto a scapito della qualità di vita di lavoratori e cittadini.
Flm Uniti Cub-Flaica Cub Ansaldobreda
Pensiamo che per comprendere la vicenda AnsaldoBreda (come peraltro per altre Aziende dismesse), sia utile partire da considerazioni generali.
«È il capitalismo, bellezza!».
Il capitale non ha nazione e non ha frontiere. Opera a qualunque latitudine con un unico obiettivo reale, concreto e visibile: accrescere gli utili. Magari al suo interno possono anche verificarsi lotte asperrime fra le sue varie espressioni e/o lobbyes, ma il vincitore sarà sempre il Capitale. Che, a qualunque latitudine, troverà sempre Stati nazionali con governi borghesi proni e ubbidienti ai suoi dettami.
Magari possono esserci lotte fra le varie fazioni politiche per assumere il comando delle operazioni, per cambiare le forme di governo, ma la sostanza e il risultato sarà sempre lo stesso.
Pensare ad un capitalismo “umano” è una delle più grosse cantonate che possa prendere chiunque si occupa di politica. Di qualunque colore sia la sua casacca di scuderia.
Perché non può esistere un capitalismo umano, come non può esistere un capitalismo “regolato” da opzioni politiche. Costituirebbe un ossimoro.
In periodi di “vacche grasse”, come per esempio dal secondo dopoguerra fino agli inizi degli anni ’70, la straordinaria crescita economica in tutta l’area occidentale – dovuta a una serie di fattori oggettivamente irripetibili – ha permesso al “popolino” di raccogliere le briciole che cascavano dal grande banchetto del business capitalistico. Briciole con le quali sono stati placate le giuste rivendicazioni di coloro che, effettivamente, producevano quel plusvalore, e che hanno consentito anche conquiste sociali di una certa rilevanza. Beninteso, quelle briciole non sono state regalate da nessuno, ma sono state il frutto di strenue e dure lotte – con morti e feriti – che la classe operaia ha condotto nelle piazze (molte volte frenata e tenuta a bada dall’opportunismo politico e sindacale della sinistra istituzionale).
Sono ormai più di trenta anni che quel trend positivo si è interrotto. Ed anzi è iniziata una parabola discendente della quale non si vede la fine. Con essa è iniziato, parallelamente, anche il lento e continuo riflusso di tutte quelle conquiste “proletarie” e sociali.
La più grande crisi capitalistica della storia (superiore anche a quella mitica del ’29) iniziata nel 2007 ha accelerato in maniera esponenziale anche il ridimensionamento, quando non l’abolizione tout court, di quelle condizioni di civiltà sociale.
Perché lo Stato e i relativi Parlamenti borghesi, sono il “comitato d’affari della borghesia”.
Può anche non piacere ed essere considerata ideologica questa definizione, ma ciò non ne scalfisce la validità ne tantomeno l’attualità.
Per questo motivo, nel mentre ogni Governo in ogni parte del mondo si impegna a sostenere il capitale parassitario, allo stesso tempo preleva le risorse necessarie tramite la sistematica distruzione delle condizioni economiche e sociali delle persone.
In Italia, la nostra classe politica inetta e insipiente, molte volte anche corrotta e stracciona, si impegna in modo particolare in questo compito e, direi, con un buon successo. Anche l’operazione AnsaldoBreda rientra a pieno titolo in questo programma. Le dichiarazioni dell’AD di Finmeccanica Moretti sono molto eloquenti, ci dicono quali sono gli interessi del capitalismo italiano.
Non è più l’ora di piangersi addosso. Per la classe operaia, per i lavoratori, per i proletari è l’ora di rispolverare e rimettere in moto i vecchi strumenti di lotta. La lotta di classe esiste ancora, basta vedere con quali strumenti il capitale la combatte. Alle sue cannonate non si può continuare a rispondere con la fionda.
I tempi sono cambiati, viene detto da più parti, e non è più possibile ripetere certe esperienze.Per il capitalismo non ci pare che sia così. Sta tornando ad utilizzare gli stessi metodi ottocenteschi. Aggiorniamoci pure, è necessario. Ma senza una dura lotta è impensabile risalire la china.
PCL PISTOIA