setteponti. «ADDIO, MIA BELLA SIGNORA»: L’IRREVERSIBILE DECLINO DELLA MONTAGNA

Com’era bella e grande e viva la Montagna. Setteponti, un incanto finito nel nulla

 LA POLITICA E LA SINISTRA
HANNO MACELLATO L’APPENNINO


Saluti da Setteponti e Pracchia

 

MONTAGNA. Bella, la fotografia che Marco Ferrari ha pubblicato su Setteponti, sulla via Porrettana.

Geograficamente normale, come tante altre foto d’epoca, storicamente immensa.

Setteponti di allora, con il suo treno a vapore e il suo variegato e vissuto contorno umano, è la contrapposizione disperata della nostra Montagna di oggi.

Setteponti “viaggiava”, la Montagna è ferma.

La nostra Montagna di oggi è una Setteponti; un casino.

A Setteponti si andava a “scopare” mentre nella nostra Montagna, oggi, si può solo andare prenderlo nel “di dietro”.

Saranno contente le congreghe Lgtb, ma non certamente i pochi (e purtroppo sempre meno?) naturalmente nati e naturalmente, cioè secondo natura, disponibili a vivere la propria esistenza in maniera normale, in tutte le sue forme: sessuali ed ambientali.

Sarà contento anche il catto-comunismo ufficiale, pronto a dare il culo pur di prendere voti; lo hanno fatto per settanta anni, dimenticando che a Setteponti c’erano donne e non uomini; ma per il Pd e pronubi vari questa è “robetta” da niente, perché il fine giustifica i mezzi e quindi anche metterlo in tasca agli altri è legittimo, perché il voto si conta e non si pesa: come le signorine che andavano a tariffa e non a soddisfacimento.

Entrare nello specifico di ciò che è stato sottratto alla Montagna in termini di servizi e quant’altro, credetemi, mi sembrerebbe oltraggio alla Montagna e soprattutto a Setteponti.

Sette Ponti. Treno merci in transito

Soprattutto a Setteponti che da periferico luogo di piacere, allora, si tramuta, oggi, in un gigantesco atto di accusa verso tutti quegli eunuchi politici che hanno ridotto il territorio a fogna di vita, che solo gli anziani possono continuare ad amare, ma che i giovani non comprendono ed in molti casi evitano e se ne allontanano.

Setteponti è il contrario della Comunità Montana (della quale ad abundantiam abbiamo scritto); è il contrario del Ponte dei Mandrini, ancora chiuso, del Mo.To.Re. ex Cis che succhia soldi e non produce, del Dynamo che fa accattonaggio perpetuo perché anche “il bene” deve produrre “utili”, della Turati che supplisce il pubblico con il privato (a pagamento o in convenzione, ma sempre con i nostri soldi), perché il pubblico non c’è più.

Dunque, via, Setteponti e la sua tenutaria erano più seri, secondo l’allora logica commerciale. Non chiedevano, davano. Perché se ci andavi, era una scelta tua.

Setteponti è lo specchio riflesso di soldi che dovevano arrivare dall’Unione dei Comuni fusi e sono stati italicamente mangiati alla faccia di strade e finanziamenti venduti come servizi alle persone e, di contro, perduti nelle nostre selve e nei nostri boschi dove si va a “cuccare” mirtilli, funghi e castagne.

Setteponti è il perverso riflesso della Val di Forfora che quotidianamente frana, delle chiese abbandonate, addossate a novelli manufatti che solo a guardarli, fanno rabbrividire (vedi gli infissi anodizzati, accanto, a ridosso, appiccicati alla Pieve Matildica di Migliorini, in Piteglio).

Sette ponti

Belle Arti, se ci sei batti un colpo.

Setteponti è anche una gradevole località in prossimità di Pracchia; se abbiamo offeso la sensibilità dei suoi abitanti, ce ne scusiamo.

Noi, però, di Setteponti vogliamo ricordarci l’aspetto gradevole e fuggitivo.

Chi governa o ha la pretesa di governare il territorio montano, farebbe bene a ricordare che la Montagna non vive solo di ricordi o di vecchie case di piacere dismesse, neppure se di quella “casa” fossero… il frutto!

Felice De Matteis
[redazione@linealibera.it]


PASTASCIUTTA SULLA TOPA

Chissà come se la piglieranno le femministe assatanate come quelle del Club sul Facebook (meglio Fakebook) non ufficiale di Montale! Sì, insomma, quelle gentili altre metà del cielo (Mao Tze Tung) come la signora Barbara Dardanelli, che ieri mi ha minacciato di morte (ci farò un commento a parte, ma più in qua), o l’Agnese Pippolini, sempre muta (è diversamente parlante?), o la luminosa «soi-disant professrèss» Milva Maria Cappellini che, pur avendo da pensare, e molto, ai fatti sua – specie in vista dell’incameramento nell’erario familare di un bel mezzo milioncino di € (per cui, però, dovrà aspettare ancora un po’ che decida il perito del tribunale: fatevelo raccontare da lei, magari con dovizia di particolari e in versi sciolti come nella Camera da letto di Bertolucci-padre, che non so se ha mai letto…) –, ai fatti sua, dicevo per ripresa, appare, questa rappresentante del tiaso delle letterate, un po’ qua e un po’ là, come la Madonna, a seconda dei casi e delle persone attuali, o qual niveo cigno a dispensar perle di lussureggiante cultura «infra» (cioè: in mezzo) alle deiezioni delle solite colombe dal disìo portate di Casa Betti, ossia il Monastero di San Salvatore in Agna, dove non si amministra, ma ci si lagna.

Eppure – vogliano o no le nuove streghe che sono tornate – la storia della pastasciutta sulla topa è degna di finire in una specie di racconto alla Boccaccio o alla Geoffrey Chaucer, un ometto caro anche alla cultura sinistrese di PPP, Pier Paolo Pasolini. E allora, dai!

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Giovanni Sboccato

 

Dovete adunque sapere che ai famosi Setteponti di Pracchia, l’ultimo luogo di Toscana prima di passare in terra d’Emilia nel comune di Granaglione (a sinistra) e con il Reno (a destra) che protegge il territorio della Sambuca, èravi un rinomato bordello o lupanare che dirsi voglia, tenuto da una gentildonna che, per pudore, chiameremo genericamente Madonna Lucrezia, viste le sue straordinarie verginali virtù.

In quell’ambiente, sì accogliente e amico, capitavano, a tratti, varie gentili studentesse, che discendéan dalla turrita Bologna, oggi nota per i suoi tortellini senza majale, il suo cardinale arcivescovo comunista Tuccinzuppi (Gaudium Domini fortitudo vestra), e le sue succulente sardine non in iscatola, ma in piazza a lo spasso: oltreché, s’intende, per le famose prostitute ottimiste e di sinistra, com’ebbe a definirle un famoso trovatore, nomato Lucio di Piazza Grande, noto e pregiato da due eminenti politici, l’un che chiamavasi, appropriatamente, Casini; l’altro ch’appellato venìa scherzosamente Mortadella da una delle specialità più note dell’urbe sardinaria.

Et erano, codeste ch’io dissi, perlopiù studentesse dell’antica Universitade, ove insegnato avéa persin l’ottimo Cino da Pistoia, lo qual, per andarvi a tener lezione, passar soléa per lo castello della Sambuca, ov’era sepolta quella Selvaggia de’ Vergiolesi, morta ancora fanciulla et ivi tumulata, onde quel chiaro giurisperito e poeta stilnovista solitamente la piangéa «’n sull’alto e ’n sul beato monte”.

Le graziose giovini bononiensi, che le lezion frequentavano nella cittàde, un dì, a’ tempi antiqui de li etruschi, chiamata Fèlsina, quando bisogno avéansi di raccoglier denari per far loro spesucce onde agghindarsi (gonne, scarselle e scarpe, con cui sfoggiar le lor grazie) da Madonna Lucrezia recàvansi a’ Setteponti e, offrendo i lor servigi a’ viandanti, eran solite ottener lauti donativi in fiorini, marchi e lire e non già in euri volgari com’oggi sarebbe: monete stampate col culo dell’imperadrice d’Allemagna, una birraia da Oktoberfest “inchiavabile”, avrebbe detto, molto dopo, un Merlino d’augusto casato Milanese, nomato Silvio Beicoglioni, aduso a banchettar con simili donne fresche e sode in un famoso palagio che stava Ar Core a molti, nello qual consumàvansi burlesques con vestali in abiti da monaca; panni che poi volavan via di dosso scoprendo ogni arcano mistero su ambo i lati del corpo loro.

Aveva appena imparato a muoversi…

Offrivano, le studentesse bononiensi, le lor grazie in cambio di doni et, in particulare, pare che fùssin ben preparate et esperte in atti di silenzio clausurale improntati a una famosa pratica del tacere che nome anchor oggi tiene di «sòcc’mel» ovvero «buchèn dla Montagnola», noto, pare, anche molti decenni dopo a una certa Monica, di cognóm polacco Lewinsky, la quale, da piccola, gattonando a Uoscintóne, a caso, sotto una scrivania, in una sala ovale, imbattéssi in una sorta di topo che infra le gambe sporgéa, movendosi a contrazioni, di un bell’uomo d’alta statura e per giunta democratico: sì che la monacella préseselo fra’ denti, finché codesto arnese non morìssi esalando la vita con l’ultime lagrime sue.

Del che, nonostante un composto ed ermetico silenzio, sembra che la legitima consorte del democratico bombardator di Balcania, èbbesi molto a male: lei che nome impropriamente aveva di Ìlare, mentr’era assai triste dappoiché era madre d’una figlia fantozzianemente rangutana, ch’ogn’om comune chiamava non Chelsea, ma Cessea, in segno di spregio.

Studiavano, le sopradette studentesse, più spesso lettere e filologie di varie lingue, sicché offrivano ai loro benefattori (o, a dir più propriamente, pène-fattori) anche piccoli spettacoli da teatro dell’arte, con molte attrici in su la scena ove spesso recitàvasi la storia della famosa «topina pelosa», morbida et humida, del famoso favolello francese, un vero capolavoro d’arte medievale che intender no lo po’ chi no lo prova o non l’ha letto.

Invero non sempre gli avventori della locanda di Madonna Lucrezia erano leggiadri giovini et addottorati, non sempre menetsrelli e trovatori o poeti. Più spesso èransi rozzi contadinotti de la Piana e cittadini dello squallor de’ bottegai che, con quelle giovini carni, divertirsi voléano sollazzando a ogni costo le voglie insane della carne loro, una carne, il più spesso, di porco e non d’umano.

E una volta in particolare, salìrno a Pracchia da Madonna Lucrezia, i compagnoni d’una banda di mercenari del piano, desiderosi di dedicarsi a una orgiastica danza collettiva. Et erano, a quanto raccontòcci un di loro, Baffo, presente e partécipe a quella sorta di giostra, cinque o sei o di più, tutti disiósi di sperperar forze e monete al fin di sollazzare quel famoso animaletto che sarebbe poi finito a riempire la bocca della Monica gattonante in sala ovale.

Ora va detto che, da Madonna Lucrezia, non c’era solo sollazzo carnale: al suo focolare, come nella novella boccaccesca di Fra Cipolla, arrostìvansi costolette di porco, salsicce e carni varie d’uccelli e pesci di Reno e quadrupedi ungulati. Et ivi facéasi, dicono, un sugo all’anatra che finìa come un paradisiaco canto celeste in piatti ricolmi di pasta d’ogni tipo, specie di bolognese come le tagliatelle all’uovo o anche i toscan maccheroni: una vera leccornia, perfino per chi non mangia il maiale.

Maccheroni: significa «[cibo] degli dèi»
Così, quella volta di cui dètteci notizia Baffo, èravi presente anche un estroso artista del piacere che, scatenando la sua arguta e creativa fantasia, decise che, nell’orgia de’ sensi, mangiato avrebbe una impareggiabile e paradisiaca “pastasciutta ’n su la topa”, come dopo sarèbbesi visto in un grandioso e profetico film, La grande abbuffata con topa, amore e morte.

E nel momento più intenso della rappresentazione, Guglielmo il Conquistatore, così verrà da noi nomàto per discrezione, elettrizzato dall’esecuzion dell’idea da lui stesso partorita, fatta accomodare la sua giovine sur un comodo giaciglio, con le gambe spalancate, rovesciò, a un tratto, la portata di sugosi maccheroni sulla topa esibita di costei.

Indi, a grugno avanti, s’affondò come il porco nel paston di semorello drento ’l trògolo dello stalluccio e iniziò a mangiare voracemente, grugnendo, qual Polifemo i greci di Ulisse, i colanti di sugo maccheroni di Madonna Lucrezia insieme ai peli della giovin supina e ridente a sganascio, in un turbinìo di risatacce che paréasi più vicino a un inferno di Dante che non a scena di raffinato nicciàno lupanare da decadenti francesi à rebours.

E il tutto, nòtisi la finezza, mentre Baffo, come invasato e inspirato dalle divinità delle selve, con una volgare formaggera in mano, attingéa brancate di cacio parmigiano grattato e gettàvale su maccheroni, topa e capo di Guglielmo con orribil risate.

Et è per questa grandiosa scena da discesa agli Inferi che certe memorie non possono essere gittàte al Reno, e per sempre, nell’acqua rapida che scorrer suole sotto i Setteponti di Pracchia…

Giovanni Sboccato, Il Decameron de’ Setteponti

A questo punto il Club Montale ha una sola possibilità: quella di cercare di capire che la vita non è un semplice circolo delle buone maniere per piccole donne, ma è pure un casino di questo genere per piccole donne che crescono; una bordellopoli che – tanto per citare una fonte non secondaria – gli uomini (donne ivi comprese) devono capire senza scandalizzarsi. Per il resto c’è Mastercard.

Bibliografia consigliata:
https://ricerca.gelocal.it/iltirreno/archivio/iltirreno/2005/05/19/LA7PO_LA702.html

Edoardo Bianchini
[direttore@linealibera.it]
«LineaLibera» – Quotidiano di Area Metropolitana. Informazione, cronaca, politica, attualità, satira, cultura, inchieste, servizi, varietà


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