«SOGNI DI GLORIA», L’ULTIMA DI CARLO MONNI

Sogni di gloria
Sogni di gloria

PISTOIA. Il comandante è al suo posto, pronto a partire. Dalla torre di controllo, gli agenti al traffico hanno detto che si può volare. Nella carlinga, passeggeri e hostess al seguito sono ansiosi di restare sospesi. I motori rullano impetuosi, ma la sensazione è che l’areo resti sulla pista e non decolli.

È questa la sensazione che abbiamo avuto al termine di Sogni di gloria, il nuovo film del collettivo John Snellimberg uscito nelle sale, soprattutto toscane, sala Roma compresa, in via Laudesi, a Pistoia, lo scorso 16 maggio. La cosa che lo fa restare a terra, probabilmente, sono gli eccessivi richiami a trascorsi illustri, Nanni Moretti su tutti, seguito, a ruota, anche se con parsimonia, dalle dinamiche satire dei Giancattivi fino ad arrivare, con parecchi benefici di inventario, a Quentin Tarantino.

Patrizio Gioffredi comunque, regista e coautore con Duccio Burberi della pellicola, non travisi: il tessuto, non quello di Prato, dove è quasi del tutto ambientato il film, è decisamente di qualità; la direzione minimale e minimalista, che affida a squarci fotografici l’essenza scenografica, è decisamente gradevole e gradita, così come la biunivoca corrispondenza tra volti noti e sacri, con tanto di recitazione al seguito (Carlo Colangeli, ad esempio, ma soprattutto Carlo Monni, con la sua ultima pellicola, l’ennesima dolcissima irriverenza) e nuove facce che non è da escludere le si possa rivedere ancora, sul grande schermo, oltre che continuare a deliziarcene a teatro, come quelle di Luca Zacchini e Francesca Sarteanesi, due dei tre Omini e senza dimenticare di citare due nobili comparse, assoldate alla bisogna nei loro ruoli: l’armonica anarco-blues di Sauro Ravalli e i muscoli di Silvano Martini, l’uomo della sicurezza del Festival Blues.

Ma è questa altalena tragicomica che non dondola come dovrebbe: troppo parsimoniosa nel non affondare la lama nelle piaghe sfiorate e timorosa di far ridere, con gusto. Gli ingredienti, però, ci sono tutti, ad iniziare dalla doppia linea sospesa di Giulio, protagonista del primo episodio, quello delle periferie a due passi dalle metropoli, dove le giornate durano ancora 24 ore, immerse però nelle aspettative bruciate dell’adolescenza e uccise dalla disoccupazione; e Giulio, un cinese a Prato, spedito in Italia a fare l’ingegnere e che ritornerà in Cina, dopo aver imparato a giocare a carte e a studiare, nel profondo, gli avversari, a fare l’enologo, del secondo. Senza dimenticare però il pregio, culturale, più che cinematografico, che la pellicola non scivola mai nel banale, nello scurrile gratuito e di effetto, anche quando le sit sembrano obbligarlo, più che consigliarlo.

Il regista e l’intero collettivo Snellimberg – che mercoledì sera saranno a Pistoia, proprio al cinema Roma, a raccogliere i meritati e incoraggianti applausi del pubblico di casa per la seconda uscita, dopo La banda del brasiliano – potrebbero anche obiettare che il loro intento cinematografico, dunque morale, non fosse affatto di denuncia, ma che volessero decollare, sorvolare, per poi atterrare, con la leggerezza degl’umili neofiti, su una pista qualsiasi, casomai proprio quella di Peretola, a due passi da casa.

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