SERRAVALLE PISTOIESE. Proviamo a chiederle se di quei giorni bui e interminabili abbia qualche bel ricordo.
Ci pensa, Sol Cittone Miralles, giunta nel pomeriggio a Serravalle Pistoiese per ricordare e soprattutto far ricordare le persecuzioni antisemite operate dai fascisti e dai nazisti nel periodo della seconda guerra mondiale. Ci pensa bene, ma del campo di concentramento di Auschwitz, dove arrivò quindicenne, e degli altri lager dove purtroppo è stata ma da dove è miracolosamente riuscita a ritornare viva, anche se da sola e con nessuno dei sette componenti della sua famiglia, non riesce a ricordare davvero nulla, nulla che la faccia sorridere.
“I ricordi sono solo sofferenza – dice Sol in un italiano impacciato, ma comprensibilissimo, con qualche divagazione livornese, città dove è cresciuta, dopo essere nata ad Instanbul 85 anni fa –. Ci picchiavano continuamente, dalla mattina alla sera. E ci facevano mangiare poco, pochissimo. Ricordo quando ero su un carro a dividere e sbucciare patate: uno delle SS si avvicinò e mi cominciò a schiaffeggiare. Gli dissi di smettere e lui, dopo aver provato a tapparmi la bocca con le mani, mi sferrò un calcio in un gamba con quegli stivaloni invernali che avevano. Iniziai a sanguinare. Lui, a ridere”.
Ad accoglierla, oggi pomeriggio, davanti al Comune di Serravalle, un piccolo stuolo di persone, formato dal Sindaco e soprattutto da giornalisti. Curiosi non ce ne sono, nonostante il paese, a questo evento, sembrasse tenerci particolarmente. Sirio e Imperia, però, coetanei di Sol, non sono voluti mancare.
“Ho fatto con Sol la quinta elementare – racconta e ricorda Sirio Balleri, che di Serravalle è un’istituzione: ex assessore, ma soprattutto, fonte storica e bibliografica del paese –. Le aule erano all’ultimo piano del caseggiato dove abitava lei, quando arrivò qui come sfollata”.
Anche Imperia Leporatti la ricorda benissimo. E appena arrivata, l’abbraccia e la bacia, con gli occhi lucidi.
Nonostante l’età, il dolore che le ha trapassato indelebilmente la vita, Sol Cittone è un vulcano in piena. Nelle sue parole, nel timbro della sua voce e soprattutto nei suoi occhi però, non c’è rabbia, né voglia di vendetta.
Risponde a tutti quelli che le chiedono qualcosa, con la cortesia che l’interlocutore le ricordi a che punto è arrivata con il racconto. La memoria, ogni tanto, inizia a tradirla: con i nomi delle persone e delle città, con le date, con i numeri. Dell’olocausto però, ricorda tutto, perfettamente.
“Passammo cinque giorni in treno – continua Sol –. Ci portarono alla stazione dopo averci rinchiuso, come ebrei, nel carcere di Pistoia e in quello di Firenze (Le Murate – n.d.r.). A Pistoia fu il maresciallo Luigi Cellai ad interrogarci e a portarci in galera. In Germania arrivammo a mezzanotte. I tedeschi che ci pressarono sui vagoni ci dissero che se qualcuno, durante il viaggio, fosse scappato, gli altri avrebbero pagato al loro posto, con la fucilazione”.
“Passavano i giorni, nel campo di concentramento, e poco alla volta, noi donne, diminuivamo. Non sapevo dove venissero portate quelle che stavano con me, nelle stanze e che improvvisamente, sparivano. Una mattina capii perfettamente dove andassero le mie amiche del Lager: stavo malissimo e lo dissi alla Kapo, una tedesca che ci trattava malissimo. Mi misurò la febbre: avevo al temperatura a 40. Mi portò in un altro stanzone, dove c’erano un sacco di altre donne in fila, tutte malandate come me. Ero stata portata alle camere a gas. Arrivò un ufficiale: era il dottor Mengele. Mi chiese come stessi e io, nonostante tremassi come una foglia, gli risposi che stavo bene. Fu la mia salvezza: ero ancora utilizzabile, potevo servire ancora a qualcosa, non ero da gettare. Mi rispedì in un altro stanzone, dove per giorni e giorni lavorai per confezionare munizioni: polvere da sparo incapsulata in piccoli astucci d’acciaio. Erano le pallottole”.
Ognuno, tra i colleghi presenti, è curioso di sapere, notes alla mano, qualcosa di particolare. Sol, risponde a tutti, guardando ognuno negli occhi. La figlia, Galia, che la ha accompagnata da Haifa, dove vivono, le porta un bicchiere d’acqua. Da quando è scesa dalla macchina che la ha accompagnata, non ha ancora smesso di parlare un solo attimo.
“Ci marchiarono per contarci – dice Sol, scoprendosi l’avambraccio –. 75671, questo era il mio numero”. È sbiadito, quel tatuaggio, ma è ancora leggibilissimo.
La pioggia, battente, ha dato un po’ di tregua. Il Sindaco e un paio di assessori presenti alla cerimonia desiderano portare Sol a farle rivedere la casa dove trascorse un po’ di tempo prima di essere deportata.
Sol si incammina, ma le dicono che la visita la faranno in macchina.
A camminare è abituata, Sol. Quando i tedeschi cominciarono a fiutare l’odore della sconfitta, tutti i deportati sopravvissuti alle camere a gas e ai forni crematori furono sottoposti alle marce della morte.
“Camminammo – racconta ancora –, interrompendo la marcia solo per riprendere fiato, per 4 giorni consecutivamente. Molti, durante l’ultima tortura, morirono per strada. Io e una ragazza, di cui non ricordo il nome, riuscimmo a sopravvivere, grazie anche ad una scatola di sardine. Un ufficiale tedesco ci dette anche una baguette. Poi, dopo un po’, arrivammo nei paraggi di un ospedale e lì incrociammo le truppe sovietiche. L’incubo era finito”.
Sono passati quasi settant’anni, da allora. Sol Cittone Miralles è ancora viva ed ha ancora la forza per ricordare e raccontare.
Bisognerebbe ascoltarla bene, Sol. Soprattutto noi che non abbiamo visto e che certe atrocità non possiamo neanche riuscire a immaginarle.
Luigi Scardigli
CON IL SOLE CHE FA CAPOLINO
LA MAGGIOR PARTE della nostra vita passa in mezzo a giorni grevi e lentissimi.
A volte, però, improvvisamente il cielo si apre e dalle nuvole esce il sole, come a me è capitato oggi che ho conosciuto personalmente una donna sopravvissuta ad Auschwitz: Sol Cittone.
Con la mia cara allieva Dana Biro, la giovane israeliana che è riuscita a rintracciare Sol ad Haifa, siamo saliti a Villa Parri, a Pistoia, e mentre il cielo si apriva davvero e il sole spuntava, ci siamo trovati a tu per tu, a parlare – in tre lingue: italiano, ebraico e inglese – con quella Sol che, settanta anni fa, fu arrestata con i suoi, scaraventata per quattro giorni in prigione a Pistoia e poi trascinata a Firenze e a Fossoli e da lì, in cinque giorni indicibili di viaggio, fatta scendere ad Auschwitz.
Ad Auschwitz sono stato cinque volte. Sempre commosso e spaventato da quello che gli uomini sono capaci di fare agli uomini. Ma l’incontro diretto con Sol, con quella bimba di 15 anni che fu strappata da qua e gettata nell’inferno dell’anus mundi, come diceva Primo Levi, mi ha colpito oltre ogni umano pensare.
Vedere è sempre un’emozione che non ha uguali. Vedere e ascoltare lo è ancor di più.
Sol mi parlava e mi raccontava la sua storia per frammenti. Poi mi ha fatto vedere il numero sul suo braccio. Ed è molto diverso che vederlo in televisione o in un filmato.
Con la mia allieva Dana e con le persone della famiglia di Sol, per prima Galia, la figlia straordinariamente energica e vitale, oggi abbiamo condiviso un’esperienza di vita di quelle che alleggeriscono l’esistenza anche se attraverso il dolore: un dolore che non può essere percepito tutto, interamente, come fu, ma che, sublimato dalla distanza del tempo e dalla serenità di Sol, rende improvvisamente saggi, alleggerisce la nostra grevità di poveri esseri pieni di superbia, e ci lascia dentro solo una voglia di piangere che sa di grandezza e di disperazione, di tragedia e di gioia.
La gioia di aver toccato un testimone e di poterne conservare e trasmettere la memoria.
Edoardo Bianchini