SONATE BACH, DANZE DI PACE IN TEMPI DI GUERRE

Sonate Bach in palcoscenico
Sonate Bach in palcoscenico

PISTOIA. Un grande ring, grande quasi quanto il palcoscenico del teatro Manzoni. Anzi, no. Sulla destra, occorre trovare lo spazio per far sì che la pianista Mari Fujino e il violoncellista Peter Krause trovino modo per come eseguire, forse troppo scolasticamente, le 11 sonate di Bach.

È su queste note che Giulia Mureddu, Sara Sguotti, Nicola Cisternino e Jari Boldrini animeranno danze estreme per dare corpo, misura e passione a Sonate Bach, un imperativo categorico accompagnato anche dal suo innaturale, ma atrocemente vero, complemento oggetto: di fronte al dolore degli altri.

Il regista e coreografo, nella circostanza, è uno di quelli che non necessita presentazioni: si tratta di Virgilio Sieni, che ha usato, quanto mai appropriatamente, alcune immagini tratte dal video di Adriano Sofri I cani e i bambini di Sarajevo, pochi ma intensi minuti di dolore freddo, schietto, incorruttibile, dove a rappresentare la disperazione, più che la morte, ci pensano alcuni cani randagi che cercano, tra le strade innevate e gelate i Sarajevo, qualcosa da mangiare.

La danza inizia puntuale, al Manzoni; la platea non è stracolma come di consueto. Lo spettacolo è fuori abbonamento, a cartellone esaurito, il primo della seconda stagione di Teatri di Confine. Non ballano sulle punte, Giulia, Sara, Nicola e Jari: sono attraversati da scosse di corrente elettrica, improvvisa; i loro corpi, trucidati dalla guerra, dalle guerre, quelle prese in ostaggio e rappresentate per l’occasione, sono quelle che abbiamo solo per fortuna visto in televisione, o raccontate da qualche inviato di guerra. Ma non possiamo rendercene conto davvero, di quella barbarie. Le danze, morte e resuscitate dai quattro giovani ballerini, artisti, coreografi dei propri rispettivi corpi però ne offrono una visuale nuova, inesplorata. Il dolore domina incontrastato, ma stride con la voglia di provare a continuare a vivere. La speranza è laica, non si prega: si fugge, ci si nasconde, ci si finge morti nell’augurio che il carnefice di turno decida di risparmiare la pallottola che ha in canna.

Nicola Cisternino, Sara Sguotti, Giulia Mureddu e Jari Boldrini
Nicola Cisternino, Sara Sguotti, Giulia Mureddu e Jari Boldrini

Appena è possibile, ci si rialza: si sventola la nostra bandiera lacera e a brandelli, si marcia verso un’occasione migliore, si accudiscono le nostre donne. Si continuano a desiderare, nonostante incomba la paura, la morte, il nulla. Anzi, delle nostre donne ci si continua a cibare, anche se non hanno più anima, corpo e desiderio. Ognuno di noi è figlio di dio del resto, come scrive Cormac McCarthy, perché anche il momento stesso della morte ci farà andare incontro a spazi nuovi: della vita il richiamo non ha fine; su, cuor mio, congedati e guarisci, ribatte Hermann Hesse.

Il regista conosce bene l’uno e l’altro: è sapiente la sua mano, ma non è animata da ottimismo. Le danze si fanno infernali, la sollecitazione muscolare è impressionante, i corpi si deformano, assumono sembianze mostruose; i corpi mostrano i lividi delle torture e sorretti a stento da gambe stanche si dirigono verso i campi di concentramento.

Due di loro muoiono prima di riuscire ad attraversare il confine: sono provati a scappare dalla follia omicida, contraffatta da nazionalismo, ideologia, colore, da Jenin, o da Sarajevo, forse da Kabul, no, probabilmente da Tel Aviv, anzi, no, da Srebrenica, da Istanbul, dalla Striscia di Gaza, dalle macerie povere di Beslan, dal crocevia dell’odio di Baghdad, dal cielo nero di Bentalha. Da Kigali. I due sopravvissuti, prima di mettersi in salvo, provano a dare un senso, più che una sepoltura, ai due profughi sfortunati: coprono i loro corpi esanime con delle gigantesche cartine geografiche capovolte. Il mondo resta sotto. Sconfitto.

luigiscardigli@linealibera.it

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