PISTOIA. In una delle primissime edizioni, sarebbe stato impossibile invitarlo al Festival di Pistoia, quando la manifestazione si chiamava Blues’In. Certo, Sting era già un musicista di prima grandezza, con i suoi Police, ma all’epoca dei fatti, siamo ai primi anni ‘80, in piazza del Duomo, il passaporto lo consegnavano solo a chi suonava blues. E di ottima fattura. Quel rock, anche se semplicemente leggendario, non era abbastanza gradito per consentire, a chicchessia, di proporre eccezioni. Sting compreso.
Venerdì prossimo invece, 24 luglio, nona e ultima serata di questo Festival mai stato così lungo e articolato, Sting, oltre che essere il benvenuto, sarà, in perfetto equilibrio con lo showman di stasera, Carlos Santana, la punta di diamante di questa 36esima edizione, contrassegnata da un’affezione rockettara ogni oltre ragionevole denominazione controllata.
E non solo perché è la prima volta che l’ex bassista dei Police, divenuto nel tempo uno dei polistrumentisti più apprezzati al mondo, arriva a Pistoia. Dal 1983, dall’anno dello scioglimento del mitico trio inglese, Gordon Matthew Thomas Sumner, questo il suo vero nome all’anagrafe, che non ignora solo davanti alle autorità giudiziarie, probabilmente, ha iniziato un percorso artistico decisamente ricercatissimo, che lo ha sistematicamente e inesorabilmente allontano dal rock and roll, portandolo altrove.
Testimonianza di questo trapasso artistico, figlio di una morte e una resurrezione, sono le innumerevoli e poliedriche collaborazioni con artisti di tutt’altra estrazione: nel lustro sotteso tra il 1985 (anno della prima incisione come ex Police) e il 1990, a Sting succedono una miriade di cose artisticamente meravigliose; viene invitato a Perugia, sul palco di Umbria Jazz, con Gil Evans al piano e Branford Marsalis al sax, ad Amburgo per interpretare canzoni di musica popolare con Jack Bruce e Gianna Nannini, a Montreaux, incide una canzone con Frank Zappa e registra dal vivo alcuni dei suoi brani migliori in compagnia di Bruce Springsteen, Peter Gabriel, Tracy Chapman e Youssou N’Dour.
Insomma, da icona del rock and roll, Sting, senza più i suoi due inseparabili compagni di avventure poliziesche, Stewart Copeland e Andy Summers, si autoelegge, in un consenso culturale plebiscitario, l’intellettuale della musica, iniziando contemporaneamente anche un percorso spirituale ed ecologico che lo eleverà ulteriormente.
Divoratore famelico di qualsiasi novità, Sting non si ferma più, depositando, ovunque gli capiti, alcuni indumenti del proprio bagagliaio: le collaborazioni non si fermano, arricchendosi di altri personaggi illustri. Arriva Luciano Pavarotti, poi Adelmo Zucchero Fornaciari; una montagna di riconoscimenti discografici, Grammy ovunque e varie selezionatissime performance nel mondo, quasi sempre per un ristrettissimo stuolo di spettatori. Si trasforma, con gusto, in attore, senza mai perdere i contatti con la realtà che lo circonda e che gli impone di non tagliare il filo con la beneficenza.
L’unica gaffe, perdonabile in un palmares così forbito, è quella che commette quattro anni fa, quando con Rod Stewart e altri interpreti della canzone si esibisce a Tashkent, capitale dell’Uzbekistan, in un concerto che cerca visibilità per lo sdoganamento di uno dei regimi più atroci nel mondo, quello del dittatore Islam Karimov, paragonato, per crudeltà dittatoriale, ai colleghi nordcoreani e birmani.
Venerdì, corrono le voci, che per questa prima volta a Pistoia Sting si presenti con una formazione strumentale portentosa, nella quale dovrebbero trovare posto e accordi, tra gli altri, tre suoi amici della prim’ora: Dominic Miller, David Sancious e Vinnie Colaiuta, il più grande batterista vivente.