PISTOIA. Venerdì 26 febbraio sarà presentato il libro Archibuseria pistoiese: un saggio incentrato sulla storia della produzione della armi in città. Una storia durata secoli, con importantissimi risvolti nella dimensione socioeconomica e culturale locale.
La produzione di canne da schioppo pistoiesi, citate anche da Horace Walpole nel 1743 come pezzi d’eccellenza, era l’ultimo anello di più filiere produttive: da quella del ferro a quella del salnitro. Salnitro, zolfo e carbone vegetale (grosso modo in proporzioni di 6,1 e 1) erano gli ingredienti della polvere da sparo, o meglio, della polvere nera o pirica, l’unico esplosivo universalmente usato fino alla metà dell’800. Una miscela già nota ai cinesi – usata sicuramente negli spettacoli pirotecnici –, che dall’anno mille iniziò a costituire il propellente per le armi da fuoco. Unica difficoltà: creare canne metalliche per reggere allo scoppio.
Per quanto riguarda carbone di legna e ferro, Pistoia era – per dirla in termini moderno – sede del distretto del ferro, addirittura con il palazzo della Magona granducale, il ministero che sovrintendeva alla lavorazione del ferro, in Via Sant’Andrea. Il minerale estratto all’isola d’Elba veniva infatti trasportato via mare, via Arno e via Ombrone con navi, navicelli e barconi per risalire, con barrocci e mulattieri, sulle valli del Reno, dove il combustibile (legna delle foreste) e l’energia idraulica dei corsi d’acqua permettevano la lavorazione.
Non va dimenticato che nei secoli si inasprirono a più riprese i conflitti per l’uso della legna, tra le necessità delle popolazioni montane legate all’economia agrosilvopastorale e gli usi energetici delle foreste come fonte di carbone (previa opportuna distillazione della legna nelle note carbonaie ricostruite e osservabili in percorsi museali ed ecomuseali ancora oggi ad Orsigna e a Baggio). Il know how della fabbricazione di canne da schippo venne introdotto dai maestri bresciani della Valtrompia, a cui si deve anche il primo forno fusorio di Pracchia, anch’esso conservato all’interno dell’ecomuseo della montagna.
Numerosi fogli d’archivio, prevalentemente del ‘600, testimoniano i diversificati pezzi d’artiglieria e polvere da sparo di cui era munita la Fortezza di Santa Barbara, ulteriore segno di quanto l’economia militare fosse collegata con la quotidianità.
Il salnitro costituiva tuttavia il componente della polvere nera più critico: la Repubblica di Venezia aveva il monopolio di quello importato dall’India ma in alternativa esistevano veri e propri processi artificiali per ottenerlo. Le salnitraie erano sostanzialmente dei cumuli di terra mescolati con calcinacci e letame coperti da tettoie.
Il cumulo veniva rimescolato periodicamente e bagnato con bottino, prelevato da carceri, ospedali e conventi per un lungo periodo, fino a tre anni: un vero e proprio reattore chimico ante litteram. Era così prevista, in opportune vasche di decantazione, una complessa e ripetuta lisciviazione con acqua del salnitro formato nell’ammasso di terra, con rese di poco più di un kg per metro cubo. Infine, prima della concentrazione e cristallizzazione finale, alla soluzione veniva aggiunta la potassa, cioè il carbonato di potassio. Un ingrediente essenziale per il salnitro, tanto che molti toponimi in Italia ne conservano il nome. Anche sulla montagna pistoiese sono documentati numerosi potassai, che ricavavano la potassa dalla cenere vegetale.
I salnitrai godevano di una speciale dispensa granducale, che li rendeva spesso violenti e arroganti, e potevano girare armati ed entrare in qualsiasi proprietà privata, specialmente nelle stalle, dove si formavano piccole quantità di salnitro sotto forma di efflorescenze lanose, puntualmente raschiate e raccolte. Provvedevano anche a tutti gli approvvigionamenti necessari ad alimentare le salnitraie, a partire dalla materia prima più asfissiante e immonda: il bottino.
Le carte ritrovate da Paolo Nesti informano che i frati francescani affittarono – per un periodo di tempo – una parte del loro orto, quella a fianco del chiostro, dove oggi sorge la casa del Balilla, ad uso di salnitraia. La celebre piantina settecentesca di Pistoia, conservata all’archivio, su cui è tracciato l’andamento delle gore, riporta chiaramente la dizione “Sinitrio de padri di San Francesco”: un toponimo che con gli anni è andato perduto, un po’ come lo stesso mestiere del salnitraio.
Maffio viveva in città, nell’attuale Via della Posta Vecchia e un inventario dei beni restituisce una curiosa immagine dell’arredamento e della destinazione delle stanze dell’immobile. Aveva invece lungo l’attuale via Crespole e Fabbriche, lungo la Bure di Baggio, la fabbrica per la produzione d’archibugi. Un’attività così delicata che molto probabilmente fu alla base della grazia che il Granduca concesse a Maffio dopo che questi si era macchiato di uxoricidio.
[Lorenzo Cristofani]
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