MONTALE. Il corpo della donna è spesso fonte d’attrazione maschile, senza dimenticare mai che l’altra metà del cosmo con la quale l’uomo interagisce è sempre figlia, spesso madre e puntualmente fonte inesauribile di piacere circolare, un vortice che gira su se stesso e che riesce, sistematicamente, a dare e ricevere.
Con questa premessa, due corpi nudi, che si sono vicendevolmente liberati dal melmoso liquido amniotico e dal cordone ombelicale che li ha visti essere madre e figlia in biunivoca corrispondenza sono, prima di ogni altra cosa, un evento straordinario, seppur consueto, della natura e il mistero che lega la donna, come essere umano, alla vita e alle sue pulsioni, non può venir svelato, prima che violentato, dagli sguardi prima e dalla bramosia poi di chi non riesce a percepire l’arte, come messaggio superiore, sublime, eterno.
C’è stato anche questo, in Svar, la performance allestita, ieri sera, all’interno e lungo i meandri della villa Smilea di Montale, dal gruppo Abythos, grazie alla volontà dell’artista Agostina Swilling, che ha affidato le sue intuizioni al testo di Lucia Mazzoncini, rivelatosi al pubblico grazie al faticoso parto e successivi piaceri offerti, tra doglie, spasmi e voluttà, da Agnese Donati e Anna Unterberger.
Una performance esemplarmente femminile gestita da donne e i cui unici destinatari sono gli uomini, quegli uomini, che sovente limitano la propria esperienza al fattore strettamente maschile, nella sua peggiore e detestabile accezione. La scena si apre con i corpi delle due performer stesi per terra, di spalle, con le caviglie afferrate dalle mani di entrambe: le doglie sono ormai insopportabili, ma la vita ha la meglio e i due corpi, fino ad un attimo prima avvinghiati, riescono a separarsi: prenderanno due strade diverse, che non impedirà loro di rincontrarsi, al piano superiore, prima della fine. Il cellophan che le copre si rompe del tutto, ma ognuna di loro ne trascina con sé un brandello.
Quando si ritroveranno, adulte, vecchie, vicino a morire, avranno imparato così tante cose che non potranno non regalare le proprie esperienze ad altre donne, che le osservano attonite, sbigottite, ma fiere, orgogliose di sapere che qualche loro consimile abbia trovato il coraggio di spogliarsi senza essere desiderata.
Due nudi che si svelano con violenta curiosità, senza mai spostare di un atomo la percezione sacra delle rispettive identità, un ciclo vitale, irripetibile, che si ricongiunge con i presupposti, che torna da dove era venuto. Prima di congedarsi da spettatori che non possono limitarsi ad assistere, ma sono costretti a seguire le figure mutanti nel loro cammino, nella loro ascesa verso l’ignoto, questa madre e questa figlia decidono di liberarsi dagli orpelli e dalle convezioni che ne hanno contraddistinto l’esistenza, rendendo a loro stesse la forza e la bellezza del proprio corpo, un’anticondanna, una nemesi apocrifa, una liberazione.
Svar, del resto, vuol dire suonare, ma non solo: la radice dei propri trascorsi originari racconta anche che svar sottintenda ardere, splendere, attrarre. E allora perché rinunciare? Tocca agli uomini cambiare. Ricominciare.