
PISTOIA. Spesso, con un bel po’ di demagogia, si dice “chi paga, ha sempre ragione”. Il tifoso, ad esempio, paga e quindi può criticare e contestare come meglio crede.
Eh no, non siamo d’accordo. Innanzitutto, in quest’epoca d’affari, bisognerebbe trovare un tifoso che paga. Ovviamente esageriamo, volutamente diremmo. Ma è certo, specie nel calcio iper professionistico di oggi (che ha poco o nulla di professionale. Ragazzi, la chiave è la professionalità, non il professionismo!), che anche il supporter fa business, sovente impelagato nel merchandising dei vari club.
Basti pensare a quel che è successo o accade nelle grandi piazze italiane, da Milano a Roma passando per Torino: l’aficionado detta legge, imperversa, ha compreso che tutti mangiano col pallone e non vuol farsi mancare la propria fetta di torta.
Ma se torniamo all’origine del termine, il tifoso è un buon tifoso se tifa, se incoraggia la propria squadra dal primo all’ultimo minuto, se la sostiene, in particolar modo nei momenti difficili: facile essere tifosi quando tutto gira per il verso giusto, molto più difficile esserlo quando la propria squadra pare contagiata dalla sindrome di Paperino (ovvero non ne azzecca una).
Il tifoso è libero, liberissimo di dissentire, ma entro certi limiti: se alla fine della gara, dopo essersi speso per i suoi, la cose non fossero andate bene, può fischiare, mostrarsi in disaccordo con certe scelte della proprietà o tecniche.
Bisognerebbe, però, insegnare al tifoso un po’ di cultura sportiva: il rispetto dell’avversario, che non è nemico, il male assoluto, che va combattuto, ma è soltanto uno come lui, che però non ha la sua stessa passione, il rispetto per il lavoro dei protagonisti, dietro la scrivania, sulla panchina e in campo.
È consigliabile, inoltre, che il tifoso non si erga a giudice superiore, che decide a seconda del risultato: se tutto va bene, ok, altrimenti si passa subito alla contestazione. Attenzione, poi, quando il tifoso è allo stadio, ovvero nel pieno delle sue funzioni (a casa reagisce già diversamente): si lascia trasportare dalla massa, dalle sensazioni della massa.
Anni fa la Pistoiese, in serie B, giocò due partite consecutive allo stadio all’epoca Comunale (non era stato ancora intitolato all’indimenticabile presidente Marcello Melani). Al termine della prima vittoriosa gara, mi capitò d’incrociare un’anziana coppia di tifosi arancioni, marito e moglie, che non mancarono di salutarmi e complimentarsi per, a loro dire, le mie qualità giornalistiche.
La settimana successiva, alla fine di un incontro perduto, nello stesso tratto tra la tribuna stampa e la sala stampa li rividi e fui io, per primo, a salutarli. Non l’avessi mai fatto: avevamo perso e gli elogi della settimana precedente si erano trasformati in insulti, come se anch’io fossi stato responsabile della sconfitta.
Ecco questo non è essere tifosi: è non essere equilibrati (e chissà se poi, a mente fredda, ripensando a quella reazione, se ne vergognarono un po’. Non credo, il tifoso allo stadio è in balia degli eventi, come fossero onde).