PISTOIA. Caro lettore, l’articolo sotto riportato non ha bisogno di alcun commento. Prende allo stomaco, è insultante e ributtevole per tutti coloro che il cervello all’ammasso ancora non lo hanno portato. Riconduce ai “gloriosi anni del 68” e ci fa comprendere che la demenza ideologica alberga nelle università italiane di pari passo con la cultura bolscevica e comunista che tanti bei frutti ha generato negli anni. Attenzione però, perché c’è tanta gente che non ha affatto intenzione di dimenticare e sta solo aspettando l’occasione di chiedere conto a certi “ominicchi” che in gran quantità credono ancora di potersi sostituire al diritto (che non conoscono), alla conoscenza (che non hanno) e al buon gusto di valutare senza pregiudizi. Ed allora, tempo al tempo. Il tempo porterà alla luce la verità…
Buona lettura e tenete a portata di mano qualche medicinale contro il vomito:
L’università italiana non le ha concesso l’abilitazione a professore associato perché è dichiaratamente di destra e – quale orrore – si permette di svolgere attività giornalistica, anche in tivù e persino su fogli impresentabili quali Libero: con queste motivazioni, benché espresse nella prosa elusiva del burocratese, Simonetta Bartolini si è vista bocciare al concorso nazionale per titoli cui ha partecipato.
Ai candidati, il ministero dell’istruzione chiedeva di compilare un formulario in cui elencare le attività svolte, allegando, in formato elettronico, dodici pubblicazioni fra quelle degli ultimi dieci anni. Simonetta Bartolini si è attenuta alle indicazioni, senza sospettare che stava fornendo ai suoi giudici il pretesto per escluderla. Da una decina d’anni è ricercatrice all’Unint, Università Internazionale di Roma, dove insegna Letteratura italiana contemporanea e Letterature comparate. Segretaria di redazione alla «Rassegna della letteratura italiana» dal 95 al 98, ha ricoperto incarichi in numerose istituzioni culturali, dirige la rivista on line «Totalità» e si è a lungo dedicata alla critica sulla carta stampata e dagli schermi tivù. Un ottimo curriculum, cui si aggiungono libri e articoli su riviste importanti, per esempio «Nuova storia contemporanea» di Francesco Perfetti. Titoli inutili, se non dannosi, per chi è stato chiamato a vagliarli.
Uno dei commissari, Mario Sechi – omonimo del più noto giornalista – non ha remore nel metterlo nero su bianco: «Come studiosa», scrive nel testo rintracciabile sul sito del Muir, «la candidata presenta un profilo marcatamente militante, orientato sulle tesi del revisionismo storiografico (sul fascismo e sulla Resistenza come guerra civile, e sulla stessa esperienza della Rsi), e impegnato in un tentativo di rivalutazione di autori rivendicati dalla destra politica come fondativi di una tradizione alternativa a quella “vincente” ed egemonicamente canonizzata: da Soffici a Barna Occhini, di cui ha pubblicato il carteggio, a Papini e Guareschi (che viene messo a confronto con Primo Levi in un saggio del 2008), a Comisso nella sua formazione dannunziana, a un Pasolini proiettato sin dai suoi esordi in una prospettiva ultra-mistica e ultra-tradizionalista».
Gli autori esclusi dal Pantheon della sinistra – quali Papini, Soffici, Comisso – non hanno dunque diritto di cittadinanza: dedicare loro analisi critiche è superfluo. Sul fascismo siamo tornati a un’era antecedente a De Felice; rileggere Pasolini in chiave eterodossa è blasfemo; parole come mistica e tradizione costituiscono, di per sé, un marchio d’infamia.
Alla Bartolini si rimprovera il «profilo militante», perché rivolto a destra; se la militanza si fosse orientata nella direzione opposta, avrebbe rappresentato un titolo di merito.
Non è finita: la monografia su Papini, di cui la Bartolini è autrice, l’unica mai pubblicata, che conta 400 pagine fitte, è stata ritenuta «modesta». Beata ingenuità: nel testo, per ottenere plauso, sarebbe bastato aggiungere che il corrosivo scrittore presentava aspetti d’antifascismo inconsapevole, un po’ come fece Bruno Zevi che, per salvare Giuseppe Terragni dalla damnatio memoriae, asserì che la sua opera era «oggettivamente» antifascista.
Tra i demeriti ascritti dalla commissione ministeriale all’imprudente studiosa, anche il fatto d’aver dedicato saggi e scritti al padre, il grande pittore e incisore Sigfrido Bartolini: pubblicazioni, si legge nello sprezzante giudizio, “che nascono dal contesto familiare”, e dunque per questo irrilevanti. Da non credere, soprattutto in un’università, com’è la nostra, soggetta al più bieco familismo. Ancor peggio l’attività giornalistica, di per sé spregevole, anche perché svolta fuori dalle testate gradite all’apparato cultural-mondano. Se gli articoli della Bartolini fossero apparsi su Repubblica, di sicuro nessuno avrebbe avuto da ridire.
Da notare che l’abilitazione a professore associato non garantisce alcun posto: chi l’ottiene, può soltanto sperare nella chiamata d’un ateneo. È tuttavia agghiacciante costatare come nel 2014 il pregiudizio ideologico ancora determini le sorti del nostro sistema educativo. Il criterio, da quarant’anni a questa parte, resta il medesimo: fuori i fascisti dall’università, come continuano a gridare i bravi ragazzi dei collettivi (e fascista, beninteso, è chiunque non s’inchina al politicamente corretto).
Da Libero del 15 marzo 2014 a firma di Renato Besana (vedi).