LA GIURIA DI CANNES non ha abboccato. Nonostante la venerea bellezza di Miss Universo, Madalena Ghenea, una rumena che piace a tutti, anche a Salvini, scommettiamo, Youth, l’ultimo film di Paolo Sorrentino, è stato ignorato.
E hanno fatto bene i cugini francesi a non tenere nella debita considerazione la pellicola del regista napoletano, anche se le interpretazioni dei due mattatori, Michael Caine e Hervey Keitel, meritano, da sole, il prezzo del biglietto. Perché anche questa Giovinezza, né più né meno di quanto non lo sia stata La grande bellezza, è un’altra tempesta di marchette, rese ancor più irritanti dalla dedica finale che l’autore fa a Francesco Rosi, tentando così di ripulire, con un omaggio troppo impegnato per la sua superficialità, una carrellata di luoghi comuni perfettamente confezionati di un mondo, tra l’altro, che conosce solo lui e la gente del suo entourage.
Siamo in Svizzera, in un hotel forse a sette stelle, con clienti così affezionati che sembrano poterlo trasformare in una casa di riposo per soli nababbi ormai troppo vecchi per sottostare ai consigli dell’analista, ma ancora in grado di eludere le ganasce fiscali. Con tre eccezioni: il vecchio compositore nonché direttore d’orchestra, in pensione e con nessuna intenzione di riprendere la bacchetta in mano, Fred Ballinger (Michael Caine), il vecchio regista cinematografico, ma ancora coraggiosamente e commoventemente in attività, Mick Boyle (Harvey Keitel) e Jimmy Tree (Paul Dano), un giovane attore di Hollywood bello e impegnato, ma catapultato al successo, soprattutto tra il pubblico femminile, per una banale interpretazione di una saga fantascientifica.
C’è anche Diego Armando Maradona in questo esclusivo resort elvetico ai piedi delle Alpi innevate: tatuato, sulla schiena, un gigantesco Carlo Marx, che sostituisce quello vero, Ernesto Guevara su una spalla; invecchiato, bolso, gonfio, asmatico cronico e seguito tragicomicamente da una bionda che trascina, a sua volta, la bombola d’ossigeno indispensabile a curare le improvvisi crisi respiratorie dell’ormai irriconoscibile Pibe de oro.
La cinepresa, un omaggio, questo sì, a Sergio Leone, segue con incessante morbosità le incrinazioni e le smorfie dei protagonisti, vecchi e invecchiati, mossi dal desiderio di staccare la spina con il mondo o di volerla lasciare appesa a tutti i costi. Nel mezzo scorre il fiume di una società impalpabile, sconosciuta, ad esempio, ieri sera, a tutti gli spettatori che hanno popolato la sala del cinema Lux alla proiezione delle 20:15. Una surrealtà pittorica, fantascientifica, che si apre, proprio come il film indorato dall’Oscar, con la solita festa danzante piena di luci e rumori ossessivi e che si chiude, inevitabilmente, tra le braccia dell’oblio, della morte apparente, della morte suicida e della follia, una sequenza di elementi falso-alternativi, hipster, per usare un termine glamour, con qualche parentesi, qualche piacevole e sussurrato schiamazzo che si materializza sempre lì, in una location incontaminata da chiunque altro non faccia parte di quell’inespressiva e impalpabile élite.
Anche la sadica crudeltà di Brenda Morel (una decrepita Jane Fonda) – che parte dagli Stati Uniti per andare in Svizzera a dire all’amico-regista che in quella pellicola che le ha proposto e che sta ultimando con i suoi scenografi, brutta e commovente, lei non lavorerà, perché oltre ad essere impresentabile (non ce ne vogliano i candidati di molte liste a queste regionali) preferisce prestare viso e voce ad una telenovela messicana, che le consentirà di ripienare i debiti, togliersi qualche sfizio, ma soprattutto comprarsi la villa dei suoi sogni a Miami –, è un concentrato di abili esasperazioni, che fanno unicamente leva sull’impareggiabile professionalità dei vecchi e malconci protagonisti.
Un vaso meraviglioso, questo Youth, confezionato con la maestria di chi conosce perfettamente i trucchi cinematografici, in un gioco di prospettive infallibili, fascinoso, ricco di non effetti speciali che lo lanciano nell’orbita delle competenze, ma completamente vuoto, un viaggio affidato solo e soltanto alle immagini che si sostituiscono, del tutto, alle parole e alla profondità, tradotto per lo stupore dei facilmente emozionabili dai visi solcati dalle riprese di Caine e Keitel, in un meraviglioso carosello scenografico e fotografico, buono per qualche spot turistico e pubblicitario della Svizzera, così come La grande bellezza lo è stato, dietro lo sguardo cinico di Toni Servillo, per Roma.